Una mattina d'aprile del 1941 Virginia Woolf usciva di casa e si dirigeva verso il vicino fiume Ouse. Il suo bastone da passeggio, abbandonato sulla riva, segnò il punto in cui il cammino s'era interrotto per divenire «the voyage out». A cinquantanove anni, la più grande scrittrice del Novecento aveva scelto di spegnere nel silenzioso fluire delle acque la tensione ormai insostenibile della sua esistenza. Sulla scrivania di Virginia Woolf, due lettere di congedo, per la sorella e il marito, e l'ultimo romanzo, "Tra un atto e l'altro", il più rarefatto e insieme il più struggente dei suoi capolavori. Fra un atto e l'altro di una rappresentazione dilettantesca in un paese della campagna inglese, negli intervalli cioè tra la «storia» e la «realtà», si liberano i «momenti dell'essere» più squisitamente woolfiani: gli uomini, gli spettatori della vita, sono colti nel loro stato di protagonisti. Rigurgiti ansiosi, voluttuose fantasticherie, accensioni di desiderio, guizzi di rivolta, monologanti lirismi percorrono un tempo neutro, un'ora zero della vita, e confluiscono in un unico «stream» che si oppone con fluida, magnetica tenacia alla tragica, banale fissità degli avvenimenti rappresentati. L'opera della Woolf, quando sembra maggiormente concedersi al caos, è sempre uno strenuo, esasperato tentativo di organizzare un cosmo: «riunire il disperso». Tra un atto e l'altro non è che l'ultimo capitolo di una trama tanto ossessivamente tessuta quanto sdegnosamente leggera, un frammento che non si concede neppure l'autorità e il terrore di un ipotetico valore testamentario. Postfazione di Franco Cordelli.
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