C’erano una volta un Pirata e un Cowboy. Troppo breve fu il loro duello sulle strade del Tour de France e dell’Olimpiade, nell’estate del 2000. Troppo breve e zeppo di bugie: avessimo conosciuto allora l’intera verità sul conto di Lance Armstrong, il Cowboy, forse il giudizio popolare su Marco Pantani, il Pirata, sarebbe stato molto diverso. Il racconto di una rivalità che avrebbe potuto cambiare la storia del ciclismo moderno, nel cuore di una sfida da tragedia greca tra un Ettore e un Achille della bicicletta, merita di essere riscritto oggi. È tardi per porre riparo a una manipolazione della realtà che innescò uno spaventoso cortocircuito mediatico: ma certo è venuto il momento di riconoscere che il Pirata e il Cowboy erano due facce della stessa medaglia, la medaglia di un ciclismo nel quale pretendere di distinguere buoni e cattivi fu soltanto un penoso esercizio di ipocrisia. Abbandonarli all’oblio, fingendo di dimenticarli, farebbe torto non soltanto alle loro biografie. Ma a noi stessi.
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