"Grande Ungheria" e Real Madrid. I carri armati a Budapest e la Spagna di Francisco Franco. Guerra fredda e cortina di ferro. Due mondi e due vite. Quelli di Ferenc Puskás, che ha vinto e incantato il mondo del calcio anni Cinquanta con il suo piede sinistro. Ma c’è una terza esistenza nella storia di questo campione, tra l’ottobre del ’56 con l’invasione sovietica e l’estate del ’58 con l’arrivo alle Merengues. La più difficile, la meno conosciuta. Braccato da un governo sotto il tacco di Mosca, punito dalla Federcalcio mondiale, il "Colonnello" Puskás guida la squadra dei profughi in esilio per mezzo mondo a caccia di un’amichevole, un ingaggio e la sopravvivenza. Fino all’arrivo in Italia, nella ligure Bordighera, dove le partite si diradano, mentre aumenta la pancia di quello che appare più un signore di mezza età che non il fuoriclasse che ha vinto un’Olimpiade, incantato Wembley, battuto due volte i Maestri inglesi. Ma Puskás non si arrende, la battaglia con la Fifa continua. La squalifica viene ridotta. Troppo tardi a 31 anni con venti chili in più? Non per il visionario Santiago Bernabéu, presidente del Real Madrid, che lo vuole accanto a un altro grande del football, Alfredo Di Stéfano. Resta solo un conto da chiudere. Il suo Paese lo aveva definito "disertore e traditore". Oggi Ferenc Puskás è sepolto nella basilica di Santo Stefano, come santi e sovrani. Lo stadio di Budapest porta il suo nome. È un eroe d’Ungheria.
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