Sembra che in ogni opera di Emanuele Trevi ci sia la consapevolezza del confine. L'idea di un'altra terra dove sia possibile non soltanto ignorare i generi ma forgiarli a proprio modo, fonderli, renderli un'altra cosa, senza mai tradirli: tenendo assieme una scrittura narrativa, un resoconto autobiografico, l'idea del romanzo, il diario, il ragionamento filosofico, senza che nulla venga sacrificato. Sembra che in Trevi il racconto privato finisca per riguardare tutti noi come lo avessimo sempre saputo, che – per esempio – Rocco e Pia di Due vite erano nelle nostre vite, anche se non ne avevamo mai sentito parlare prima. Accade anche con l'Asia de "L'onda del porto": la storia di un viaggio, intrapreso d'istinto l'anno dopo la catastrofe dello tsunami del 2004. Un uomo parte per vedere quel che resta di un disastro. Ma senza neppure rendersene conto alla prima tappa rinuncia e si ferma. Quel luogo, che doveva essere soltanto una linea di passaggio, la prima di tante, il preludio a una storia da raccontare su una delle catastrofi più grandi degli ultimi vent'anni, diventa altro. Cosa d'altro? È un restare, un essere trattenuti da qualcosa che non prendendo alcuna forma nitida assume sempre più importanza. "L'onda del porto", uscito per la prima volta nel 2005, è un viaggio nel viaggio. È l'India, il rapporto con i bambini, la concretezza di quel mondo, la sua semplicità, e al tempo stesso è già la consapevolezza che per Emanuele Trevi scrivere e raccontare sono una magia misteriosa, elegantissima, beffarda e sfuggente, una sfida alla verità delle cose. Ci invita ad approdare su una terra mentendoci, promettendo di andare altrove, fingendo che sia soltanto una stazione di posta. E invece ci ritroviamo in un universo che contiene come sempre l'autentica consistenza del mondo letterario e poetico, ma anche personale e umano, di Emanuele Trevi. E ogni volta finisce per stupirci, attraverso una voce che non ha eguali nella letteratura italiana di questi ultimi vent'anni. Il cerchio perfetto che unisce vita e scrittura.
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